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mossa migliore è stata una spinta di pedone al centro in appena 2 partite su 34.
Secondo Hendriks, anche l’emendamento di Dvoretskij (“il modo migliore di rispondere a un attacco prematuro sull’ala è contrattaccare al centro al momento giusto”) è insoddisfacen- te: l’aggiunta di simili condizioni trasforma la regola in una banale tautologia, che in buona sostanza equivale a dire “se una determinata mossa è la migliore, allora giocala”.
Pur trovandomi d’accordo con molto di ciò che scrive, credo che a volte Hendriks cada in qualche forzatura. L’idea di aprire il centro in risposta a un attacco sull’ala è parte inte- grante della logica degli scacchi. Nella sua indagine statistica, Hendriks dimentica che questa regola non è un segreto riservato a chi gioca con il Nero: anche il Bianco lo sa, e ha giocato 17.g4 solo quando non c’era pericolo che l’avversario si attivasse al centro.
In ogni caso, sebbene esistano alcune regole utili, negli scacchi moderni prevale un at- teggiamento pragmatico verso di esse: po- trebbero rivelarsi persino dannose.
Ne abbiamo un esempio in un esperimento psicologico (Hooler et al, 1996) in cui due gruppi di partecipanti, che comprendevano sia principianti sia esperti, hanno assaggia- to diversi vini. Uno dei gruppi ha scritto anche una descrizione a parole di ciò che aveva bevuto. Una settimana dopo, gli stessi due gruppi sono stati messi alla prova nella loro capacità di riconoscere i vini: ebbene, il gruppo che aveva scritto le descrizioni ha avuto un risultato decisamente peggiore. Davanti a quest’esito sorprendente, la con- clusione è stata che i vini fossero troppo com- plessi per poter essere descritti verbalmente. Molti dettagli erano impossibili da formulare a parole e i partecipanti li hanno dimenticati, mentre hanno trascritto gli altri. In psicolo- gia questo fenomeno è detto verbal oversha- dowing (oscuramento verbale).
L’analogia con gli scacchi salta subito all’oc- chio: anche gli scacchi sono troppo comples- si. Ogni posizione fa storia a sé e richiede un approccio specifico. Non si può giocare come se si seguisse un manuale di istruzioni.
E però, in Svezia (il paradiso dell’IKEA) que- sto genere di manuali sono tenuti in speciale considerazione: non solo ci aiutano a monta- re i mobili, ma anche a vivere la nostra vita. Tuttavia, vivere con gli scacchi significa vive- re una vita tutta particolare: il gioco è ineso- rabilmente complesso e non c’è libro capace di insegnare il segreto che permette di trovare la mossa migliore.
L’unico proverbio accettato da Hendriks è: “non esiste proverbio più forte di una buo- na mossa”. Una frase arguta, ma anche e so- prattutto un’ovvietà. Dopo tutto, i proverbi esistono solo per aiutarci a trovare buone mosse: molti di essi sono utili, purché ma- neggiati con la dovuta attenzione.
Il verbal overshadowing non crea problemi solo a chi prende parte agli esperimenti di psicologia. Sono completamente d’accordo con Jonathan Rowson quando scrive, nel suo Scacchi per zebre, che il problema più serio per molti giocatori ambiziosi è la trop- pa importanza che attribuiscono alla cono- scenza: il buon giocatore non è chi è dotato di conoscenze ben definite, ma chi possiede grandi abilità.
Tecniche di pensiero
Secondo Hendriks le tecniche di pensiero come il “soffermarsi sulle posizioni critiche” valgono poco. Gli umani non sono fatti così: noi iniziamo a cercare le mosse prima di definire le caratteristiche di una determi- nata posizione.
Hendriks ha ragione a dire che vediamo diver- se mosse già prima di vedere qualunque altra cosa, ma ciò non toglie che abbiamo bisogno di tecniche di pensiero nel momento in cui dobbiamo decidere quale giocare. Il suo tito- lo, Prima muovi, poi pensa, sarebbe stato meno accattivante ma più pertinente se lo avesse modificato in Prima le mosse, poi i pensieri. Durante la partita, cercare sempre le mosse candidate e controllare le varianti in cerca di errori richiede troppo tempo. Io sono invece dell’idea che queste tecniche vadano usate in
Introduzione
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